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Cervo volante

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Cervo volante Lucanus cervus

 
 
Maschio di Cervo volante foto di Roberto Cobianchi

Femmina di Cervo volante foto di Enrico Riva

Maschio di Cervo volante foto di Alessio Di Leo

Maschio di Cervo volante foto di Enzo Gatti

Resti di un cervo volante divorato da una volpe foto di Giacomo Giovagnoli

 

 

Il cervo volante

Non serve molta fantasia per capire da dove derivi il suo nome! Le grandi mandibole dei maschi rimandano inequivocabilmente ai palchi del nobile ungulato. Esse hanno la stessa funzione: duellare con gli avversari per contendersi le femmine. I rivali si affrontano in un combattimento che raramente è mortale, ma spesso lascia segni indelebili; la forza delle mandibole è tale che il dente mediano riesce a forare le spesse elitre!! Le battaglie prendono atto a molti metri dal suolo, sui rami o sui tronchi di enormi querce, spesso stillanti linfa, luogo d’incontro con le ambite femmine. Il combattimento ha termine quando uno dei due maschi riesce a sollevare l’altro e lo lascia cadere nel vuoto. A questo punto è libero di impossessarsi del suo premio. Se la femmina non fosse d’accordo ci pensa lui a farle accettare le avances: le blocca la testa con le mandibole impedendole la fuga.
E’ tra i coleotteri più grossi della fauna europea: i maschi superano tranquillamente gli 8cm e le femmine in media si attestano sui 4cm. C’è enorme variabilità, e assieme ai giganteschi maschi ce ne sono molti altri di dimensioni minori intorno ai 5-6cm che presentano mandibole meno impressionanti. Evidentissimo è il dimorfismo sessuale, oltre alle dimensioni colpisce il notevole sviluppo della testa dei maschi, in relazione alla crescita delle mandibole. Infatti sulle espansioni posteriori del capo si ancorano i possenti muscoli mandibolari. Diverse proporzioni ci sono anche negli arti. Le femmine hanno le zampe più corte e tozze che impiegano per scavare alla base di ceppaie di alberi morti, dove deporranno alcune decine di uova.
Hanno uno spettro d’ospite di diverse latifoglie (tra cui faggio, salice, pioppo e castagno) ma l’essenza preferita è senza dubbio la quercia. Lo sviluppo larvale è molto lungo; le piccole larve impiegano diversi anni per accrescersi (il legno non è molto nutritivo). Quelli che diventeranno gli esemplari più grandi possono trascorrere anche 8 anni come larve. Giunte a maturità, si creano un astuccio pupale con legno e terriccio, e dopo un breve periodo di pupa si trasformano in adulti, che però trascorreranno l’inverno all’interno del bozzolo. Solo a inizio primavera sarà possibile osservarli. Già da fine maggio scrutando le chiome delle grandi querce è possibile scorgerli. Tendono a concentrarsi sui vecchi alberi che sgorgano linfa. Lì, in compagnia di cetonie e calabroni, banchettano raccogliendo i succhi vegetali con una speciale spazzola. Non disdegnano la frutta matura qualora ne trovassero.
Sono insetti che si spostano all’imbrunire, con un volo pesante e rumoroso. In aria sono costretti ad assumere una caratteristica posa ad L, con l’addome tenuto verticale al di sotto del capo, per bilanciare le ingombranti mandibole. A dispetto della lungo periodo larvale la vita degli adulti è molto breve. Trascorrono poche settimane lottando e ubriacandosi di linfa. Spesso sopravvivono ancora meno. Infatti la mole e l’aggressività non spaventano certo i predatori, che, come le volpi, vedono in loro un semplice e sostanzioso pasto. Capita spesso di ritrovare i resti dell’addome masticati e sputati, mentre il nobile capo viene lasciato integro, quasi come fosse un trofeo. Sono molto graditi anche dai rapaci notturni come l’allocco, che non fatica molto a catturarli durante il loro lento volo.
E’ diffuso nell’Italia centro-settentrionale, e la segnalazione più meridionale è per la Campania. Assente dalle isole. E’ una specie segnalata in forte riduzione, e per questo rientra nella Direttiva Habitat della Convenzione di Berna che, oltre a vietarne la raccolta, ne salvaguarda l’habitat. Infatti il problema del suo declino è imputabile alla sparizione dei boschi maturi di latifoglie, con la presenza di grossi alberi morti lasciati in loco dove la femmina può deporre.

Testo di Giacomo Giovagnoli
Foto di Roberto Cobianchi,
Enzo Gatti, Enrico Riva

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